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Wild Clay

Argille selvatiche
Luoghi, radici e memorie

21 settembre - 12 ottobre 2024
21 settembre: h16.00 Talk dimostrativo e interattivo — h18.00 Inaugurazione

C’è un termine francese, terroir, che si usa in materia di vini. Indica il rapporto tra un vitigno, il clima e la geologia circostante. E se esistesse una parola analoga anche per noi esseri umani?
Quanto la geologia influenza il nostro modo di essere, di vivere, di costruire, di credere, di abitare... Come plasma la storia e le leggende dei luoghi?

Da queste riflessioni prende spunto “Argille selvatiche. Luoghi, radici e memorie”, una mostra che unisce cinque ceramiste, con la partecipazione straordinaria di Lidia Boševski, accomunate da un forte legame con la terra e il territorio, ma ognuna con un personale percorso artistico e approccio creativo.

«Tenere tra le mani queste ceramiche» spiega Elena Salamon «mi regala sensazioni potenti. Vuoi per la “rugosità”, per i colori della terra, per la storia che contengono. Ho fortemente voluto allestire questa mostra perché credo sia davvero affascinante e raro che, di questi tempi così frenetici, ci siano persone che ancora sperimentano, artiste che non si preoccupano di quante settimane o mesi richieda creare, settimane e mesi che per loro sono un piacere e che non quantificano per forza economicamente. Anzi, quantificare economicamente quanto tempo esiga il procedimento della “wild clay” è praticamente impossibile».

Il primo passo per lavorare con le argille selvatiche è lo studio del territorio. Una volta individuato il luogo adatto, la terra si raccoglie a mano, a piedi nei boschi, tra piccoli ruscelli, su per le colline o ad alta quota, e poi si lascia seccare. L’argilla infatti necessita di riposo prima di essere modellabile con successo e questo passaggio, in base alle condizioni atmosferiche, può durare anche settimane. Quando la terra è asciutta, può essere setacciata più volte oppure lasciata in purezza. Inizia ora la fase di test per scoprire se il materiale è plastico e, soprattutto, se resiste alla cottura e fino a quale temperatura. Questa fase è una continua scoperta, un esperimento infinito che ogni volta porta immense gioie, ma anche grandi frustrazioni e fallimenti. Se l’argilla supera tutte queste prove, può essere usata per creare oggetti con le tecniche più diverse o ancora processata e unita a ceneri e altre componenti per farne uno smalto.
A raccontare dal vivo e con le loro opere questo lungo procedimento ci saranno Giulia Forgione, Maddalena Boero, Francesca Pamina Ros e Jesse Donham-Buratti.

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Lidia Boševski

Lidia Boševski è una ceramista croata che lavora esclusivamente con materiali selvatici, ispirandosi alla natura, alle sue texture, strutture e forme. Diplomata alla Scuola di Arti Applicate di Zagabria e laureata presso la Facoltà di Tecnologia Tessile, all’inizio degli anni Novanta ha iniziato a esplorare la pittura utilizzando varie tecniche grafiche e dal 2002 il suo interesse si è rivolto alla ceramica. Dopo aver aperto nel 2005 l’atelier Owl nella sua città, ha ampliato il suo approccio all’arte e al design studiando e utilizzando materiali naturali soprattutto locali. Decine di mostre personali e collettive, tra Croazia, Italia, Austria, Regno Unito, Canada e Cina, testimoniano l’importante produzione dell’artista. È membro di diverse associazioni nazionali di artisti in Croazia.

«La natura è una vera ricchezza, una fonte inesauribile di ispirazione e la mia migliore insegnante. C’è sempre qualcosa di inaspettato, di nuovo, che mi dà l’ispirazione per un’ulteriore elaborazione. L’uso dell’argilla, dei materiali e di tutti gli altri elementi locali mi collega al luogo in cui li raccolgo che contiene enormi testimonianze di tutti i cambiamenti (avvenuti in milioni di anni) ed è in un costante processo di trasformazione. Il mio approccio è quello di cercare sempre di capire cosa hanno da offrirmi questi elementi e come posso lavorare con loro. Celebrate i vostri materiali locali, che sono il vostro patrimonio naturale. È un viaggio senza fine».

Giulia Forgione

Giulia Forgione è una ceramista e antropologa che lavora con argille locali, rocce e materiali di scarto. La ricerca dei materiali in natura avviene lentamente, a piedi nei boschi, tra piccoli ruscelli e su per le colline, così come è lento il suo fare ceramica. Una produzione possibile solo dopo numerosi test e sperimentazioni che tengono conto della infinita diversità delle proprietà dei materiali. La cottura ad alta temperatura permette di ottenere opere durevoli e resistenti e, allo stesso tempo, di osservare una corrispondenza tra il processo ceramico e i fenomeni di formazione delle rocce che avvengono all’interno delle camere magmatiche, bacini di alimentazione dei vulcani. Così come i fenomeni naturali non si riproducono mai identici, produrre ceramica con i materiali locali raccolti significa imparare ad accogliere un ampio margine di variabilità: tutto cambia e niente è riproducibile identico a se stesso.

«La materia è il punto centrale della mia ricerca. La raccolta dei materiali locali mi connette profondamente non solo al territorio che abito, ma anche ai processi che governano il moto incessante delle cose. Anche se non lo vediamo, una roccia muta, diventa argilla, che poi magari ridiventa roccia. Mi fa sentire più vicina a questi processi misteriosi. Fare ceramica è avere il privilegio di imitare come opera un vulcano. La prospettiva geologica, il punto di vista della Terra, ci mette di fronte alla forza incredibile che ci sostiene e anche al battito di ciglia che è la nostra esistenza. Avere a che fare con il mondo minerale mi interroga su chi sono io nei confronti di questo miracolo che è la creazione delle cose, delle rocce, delle acque». 

Maddalena Boero

Maddalena Boero è geologa e ceramista, ha vissuto in diverse città italiane e all’estero, dove ha seguito workshop di ceramica e collaborato con altri artisti e creativi. Per la cooperativa sociale Valpiana, dal 2019 organizza percorsi educativi in cui la ceramica ha la funzione di straordinario medium terapeutico. Affascinata dal potere benefico dell’arte sulle persone, l’anno successivo ha frequentato la scuola di arte-terapia Artedo di Torino e conseguito il certificato in Laboratorio di arte-terapia creativa. Ha realizzato mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Dal 2022 vive nella campagna piemontese, dove ha ristrutturato due cascine del Settecento cercando di rispettarne il disegno e la struttura originali. Qui ha trasferito il suo laboratorio di ceramica e porta avanti un progetto di eventi culturali che ospita e attira persone da tutto il mondo.

«Lavorare l’argilla locale, quella raccolta nel territorio vicino a dove abito, e trasformarla in opere cotte ha per me un significato di grande forza. Nel gesto della raccolta c’è un chiaro desiderio di trovare “radici”, quelle storico-geologiche del vaso creato e quelle mie che la terra ha custodito e incarnato per tempi lunghissimi nei suoi granelli d’argilla. E così nello spazio del mio laboratorio plasmo, creo e mi sento un po’ divulgatrice di memorie conservate per le persone, per il mondo».

Francesca Pamina Ros

Francesca Pamina Ros ha incontrato la ceramica nel 2011, in contemporanea agli studi classici e umanisti. Alla ceramica affianca infatti il lavoro in casa editrice, occupandosi di albi illustrati e libri per l’infanzia. Si è formata con maestri ceramisti italiani e internazionali, sperimentando tecniche e approcci sempre differenti: Elena DʼOria e Giorgio Fasano, Rossana Gotelli, Mirco Denicolò, Robert Cooper, Patricia Shone, Terry Davies e Lidia Boševski, tra gli altri. Lavora principalmente al tornio e a lastra, con grès e “argille selvatiche” o “urbane”, raccolte nel quartiere dove abita e nei boschi tra Piemonte e Liguria.

«Sono sempre stata emotivamente legata al quartiere in cui vivo in città, ma anche un’instancabile camminatrice nei boschi. Le argille che raccolgo sono quindi “urbane” perché provengono dagli scavi di Borgo Dora che si sono susseguiti negli anni, regalatemi in piccole quantità dagli operai che lavoravano nei cantieri e che sorridevano ma accontentavano la mia richiesta bizzarra. E sono anche “selvatiche” e “sarvæghe” (in genovese) perché raccolte durante escursioni appena fuori Torino e Genova, i luoghi in cui ho vissuto più a lungo. I materiali selvatici mi danno la possibilità di mettermi alla prova continuamente: l’argilla, per essere lavorata a lastra o al tornio, richiede infatti una particolare plasticità che difficilmente si trova “pronta” in natura; di conseguenza i risultati a cui aspiro sono un compromesso difficilissimo tra la mia ricerca della perfezione e i limiti, miei e quelli delle terre non commerciali».

Jesse Donham-Buratti

Jesse Donham-Buratti è una ceramista e agroecologa che lavora con materiali selvatici. Ha vissuto tutta la vita tra due luoghi e due lingue, tra l’Italia e la California, e dopo la triennale in Scienze Ambientali e Politiche si è trasferita a Melbourne, in Australia. Qui ha iniziato a sperimentare l’argilla in maniera autodidatta, prima lavorando al tornio e poi dedicandosi alle tecniche manuali. Ha scoperto e approfondito la pratica della “wild clay” formandosi con veri e propri pilastri di questo approccio, come Nina Salsotto Cassina, Anja Slapnicar e Studio Alluvium.

«Raccolgo piccole quantità di argille durante escursioni, nuotate, nei terreni agricoli, e testandole poi numerose volte, aggiungendo rocce e minerali per ricreare una sorta di paesaggio su ogni opera. Quasi sempre i miei vasi sono lasciati senza smalto per mostrare l’essenza della terra, le sue crepe e le sue linee, e tutti sono cotti ad alta temperatura, per spingere i materiali ai loro limiti, simulando in poche ore un lunghissimo processo geologico. Per tanto tempo la ceramica è stata relegata al quotidiano, alla creazione di oggetti necessari e funzionali, praticata per millenni senza chiamarla arte. Quando lavoro penso soprattutto alle mani delle donne che nel tempo hanno modellato, arrotolato, tagliato e disegnato le ceramiche che per me sono opere d’arte. Ogni mio vaso porta il nome di una donna nella storia, dimenticata nel tempo. Lavorando solo a mano, ogni opera è unica e impossibile da replicare, sia per il processo di costruzione manuale, sia per la quantità limitata di argilla che può essere raccolta in ogni luogo».

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